Che ti sei perso
Scrivere la storia di un altro per capire meglio la propria
Ho sempre pensato che la scrittura autobiografica servisse a raccontare noi stessi.
Scriviamo per mettere ordine, per ricordare, per dare un senso.
Ma questo podcast mi ha mostrato un'altra possibilità: scrivere di sé può diventare il modo più potente per raccontare gli altri.
È uscito il mio nuovo podcast, si chiama Che ti sei perso. Ed è il primo che ho scritto in orizzontale.
Quattro episodi, una struttura narrativa, un arco emotivo chiaro. Una storia con un prima e un dopo. E già solo questo, per me, è stata una sfida.
Scrivere non più puntata per puntata, ma sapendo dove stavo andando.
Capire che cosa volevo raccontare e, soprattutto, come farlo senza mai sovrappormi alla voce del protagonista.
Perché Gigi, il protagonista, non sono io.
Eppure, per raccontarlo, ho dovuto usare tutto quello che conosco di me.
La storia di Gigi, e un cartello fuori dal cimitero
Tutto è partito da un cartello apparso fuori dal cimitero di Napoli, il giorno dopo la vittoria del quarto scudetto. Diceva semplicemente: “Che vi siete persi”.
Ed è rimasta lì, nella mia testa, per mesi.
In quel cartello c’era tutto: la voglia di condividere una gioia, la malinconia per chi non c’era più, la rivincita dopo anni di attesa.
Un sentimento collettivo, ma anche profondamente personale.
Da lì è nato il titolo. E da lì è partita la storia. Gigi ha vinto il suo scudetto personale all’ultima giornata. Come il Napoli.
Ma il suo campionato è stato fatto di cose diverse: emigrazione, fatica, malattia, perdita.
Gigi è uno che ha fatto delle scelte difficili, a modo suo ha resistito.
Scrittura autobiografica ed empatia: cosa ho scoperto scrivendo questo podcast
Per raccontare Gigi, ho dovuto partire da me.
Dalle mie paure, dai miei lutti, dalle volte in cui ho dovuto scegliere qualcosa che gli altri non capivano.
Solo così ho potuto immaginare come si è sentito lui in certi momenti.
Solo così ho potuto scrivere delle sue perdite, dei suoi silenzi, della sua distanza, senza cadere nel giudizio o nella retorica.
Ed è lì che ho capito quanto la scrittura autobiografica sia, in fondo, un esercizio di empatia.
Scrivere di noi serve anche a costruire il ponte per arrivare agli altri.
È una forma di ascolto, prima ancora che di racconto.
Ed è da quell’ascolto che nasce la possibilità di dire qualcosa che non sia solo vero, ma anche giusto.
Che ti sei perso vale anche per me
Una volta finita la scrittura, mi sono ritrovato con una domanda in testa.
Non era più solo quella del cartello dei tifosi napoletani ai defunti.
Era una domanda che facevo a me stesso.
Che ti sei perso, Giò?
Quante cose non hai chiesto?
Quante non le hai viste arrivare?
Quante le hai capite solo dopo?
Scrivere la vita di un altro ti costringe a fare i conti con le tue omissioni, con i tuoi silenzi, con quello che non hai avuto il coraggio di dire.
E alla fine ti accorgi che quello che pensavi fosse il racconto di qualcun altro è anche una parte del tuo.
Il podcast è online
La prima puntata di Che ti sei perso è ora disponibile.
È un podcast narrativo, costruito con una struttura in quattro episodi, accompagnato da una voce che scrive lettere audio, e da una colonna sonora che segue i momenti della storia senza sovrastarli.
Se ti interessa capire come si possa usare la scrittura autobiografica per raccontare davvero un’altra persona, credo che questo sia un buon punto di partenza.
Se ti interessa ascoltare una storia che parla di aspettative, di coraggio, di appartenenza, e di una vittoria arrivata troppo tardi per essere celebrata, ma non per essere capita, allora forse è anche per te.
E se ti prende, condividila.
Perché, a volte, quello che ci perdiamo è proprio quello che avremmo avuto più bisogno di ascoltare.
A presto,
Giò